Cronache alla rinfusa di una settimana da sogno, passata in un’utopia concreta.

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Quest’estate ho passato parte delle mie vacanze a Urupia, una comune anarchica in Salento. Questa volta non sono rimasto là una mezza giornata come l’anno scorso, ma una settimana. Un’esperienza memorabile che ha aumentato la mia perplessità sul continuare la mia vita ‘normale’.

Perché ci sono andato? Perché sono molti anni che sento montare una sempre maggiore insofferenza per il sistema sociale dominante e mi aggiro curioso per tutti gli esperimenti alternativi, sia in internet che fisicamente, alla ricerca di una soluzione.

Urupia dà a quelli come me la possibilità di immergersi in quest’utopia per qualche giorno, ospitati in maniera attiva (a ciascun ospite si chiede la collaborazione nelle attività), entrando letteralmente a far parte della comunità.

Ho raccolto le mie impressioni sparse, un po’ alla rinfusa, cercando di far ordine nella confusione che regna nella mia testa sull’argomento. Alla fine l’unica inutile accortezza che mi sono concesso è stato l’ordinamento in ordine alfabetico.

A come autogestione
Diceva Colin Ward che l’anarchia è la più efficace forma d’organizzazione sociale. A Urupia è chiaro che questo assunto è assolutamente vero, almeno per quello che riguarda le comunità piccole e fortemente motivate.

In cucina, un cartello ammonisce a lavare la propria tazzina, sostenendo che l’autogestione inizia a colazione. Ma è tutta la Comune a sembrare un orologio svizzero: i bagni sono sempre puliti, le macchine rigorosamente manutenute, e ogni lavoro è organizzato come un ciclo completo, di cui nessuno cura piccole e parcellizzate operazioni. Chi è di turno in cucina deve apparecchiare, sparecchiare e lavare i piatti, oltre che cucinare.

I lavori tecnici difficili sono appannaggio di poche persone specializzate, ma solo temporaneamente, ovvero finché altri membri non saranno in possesso delle competenze. Tutti i lavori generici e umili sono ruotati.

Tutti sembrano sempre fare qualcosa in più e non qualcosa in meno rispetto al compitino che si sono auto-assegnati. I ritmi di lavoro non sono certo quelli di una catena di montaggio di Taipei, ma niente viene lasciato a metà.

A  come automobile
La gestione dei due o tre veicoli a motore, nonché quella delle altre macchine utili alla comune è affidata a un foglio appeso in bacheca assieme alle chiavi di questi mezzi. Sulle righe della tabella troviamo i mezzi a disposizione (Che cosa), sulle colonne il momento della disponibilità, giorno della settimana, mattina e pomeriggio (Quando). Chi abbisogna del mezzo dovrà indicare nel riquadro corrispondente il proprio nome (Chi) e il motivo dell’utilizzo (Perché).

Anarchia e autogestione richiedono una seria organizzazione.

C come certificazione
Olio, vino, pane, ortaggi, frutta e granaglie sono prodotti a Urupia con il metodo biologico. Non riconoscendo alcuna autorità, e quindi nemmeno quella degli eventuali enti certificatori, le comunarde (vedi) non applicano la certificazione ai prodotti, nemmeno a quelli che vendono. Seguono comunque, impegnandosi per iscritto, i disciplinari più severi in circolazione, come quelli dell’agricoltura biodinamica.

C come comunarda
I membri della Comune di Urupia si chiamano Comunarde, al femminile. Lo fanno per contrastare, anche a livello lessicale, l’onnipresente egemonia maschile. Leggiamo dai loro ‘Primi punti consensuali della Comune‘, una sorta di documento costitutivo datato 1993: “Proprio l’attenzione posta sulle diversità sessuali ci ha portato a considerare, al momento della stesura di questi punti, l’inadeguatezza della lingua italiana, che ci costringeva, per non rendere il presente documento troppo complicato e ripetitivo, a formularlo quasi interamente al maschile.

Avremmo così dovuto parlare solo di membri della Comune, di comunardi e di fondatori, e usare per tutti i verbi le coniugazioni maschili; oppure saremmo state costrette a complicare l’espressione dei nostri princìpi scrivendo sempre le declinazioni e le coniugazioni di entrambi i generi (tutti/e i/le Comunardi/e), con la difficoltà ulteriore presentata da quelle parole per le quali il femminile non esiste affatto (qual’è infatti il femminile italiano di ‘membro’?).

Abbiamo deciso quindi –nonostante il gruppo (la ‘gruppa’?) fondatore della Comune sia costituito sia da uomini che da donne– di scrivere i presenti punti tutti al femminile, anche per sottolineare l’ingiustizia rappresentata da una lingua (e da un mondo) che ‘parla’ quasi sempre e quasi ovunque al maschile.

Anche questa è Anarchia.

D come denaro
Gli scambi all’interno della Comune non sono regolati da denaro. “Quando facevo l’operaio,” racconta Paolo, “portavo a casa anche tremila euro in un mese. Mai mi sarei sognato di vivere con cinquanta-sessanta euro al mese come faccio ora. Eppure sto molto meglio adesso.

E come economia
Non esiste, all’interno della Comune, proprietà privata di case, terreni, denaro o mezzi di produzione ed è abolita ogni forma di lavoro salariato o sottoposto. Ogni componente sceglie il proprio lavoro e partecipa con esso (indipendentemente dalle sue capacità personali, o dalla qualità e redditività della sua professione o del suo mestiere) alla vita economica collettiva, godendo tutte le garanzie e i vantaggi che da essa derivano.

Siamo consapevoli, tuttavia, che, soprattutto nella fase iniziale del progetto, sarà necessario trovare un equilibrio tra le aspirazioni personali di ogni comunarda e le esigenze della sopravvivenza.

È nostro obiettivo, inoltre, valorizzare concretamente, nel nostro progetto, una nozione di ‘lavoro integrale’ che non tenga esclusivamente conto del ‘contributo economico’ delle attività delle singole, ma che consideri il loro lavoro alla luce dell’arricchimento più generale di sé stessi e della comunità, sotto ogni punto di vista.

Obiettivo della Comune è anche di realizzare, grazie all’attività delle sue componenti, il massimo possibile di autosufficienza economica, riducendo i rapporti con l’esterno mediati dal denaro e privilegiando lo scambio tra beni (baratto).

Ogni operazione economica di interesse collettivo è decisa dall’assemblea comunale. Particolari bisogni di carattere individuale sono soddisfatti attraverso l’utilizzo personale di quantità limitate e definite di denaro proveniente dalla cassa comune. Le modalità di prelievo o della distribuzione di queste somme e la loro entità sono decise dall’assemblea comunale.”

Così si legge nei “Primi punti consensuali della Comune”.

La Comune si procura il denaro per pagare i fattori produttivi vendendo in pratica  tre prodotti: olio, vino, prodotti da forno e poco altro. Ma questa è solo una parte della loro economia: il grosso del lavoro è effettuato senza dar luogo a scambi monetari. L’orto, per esempio, è coltivato interamente per l’autoconsumo, così come le piante aromatiche.

Comunarde e ospiti temporanei provvedono a tutti i servizi interni, comprese le pulizie e la cucina.

F come figli
A Urupia ci sono forse più bambini che adulti. Certo, dipende da quanti bambini si portano dietro gli ospiti (la popolazione più numerosa, soprattutto d’estate).

Ma la sensazione è che qui la gente faccia più figli che altrove, nel ‘mondo reale‘ (vedi). Probabilmente le comunarde vedono a Urupia un futuro possibile, prospettive concrete di vita e di realizzazione, e ciò le sprona a generare figli.

G come golden hours
Le ore serali nel Salento d’estate, poco prima che il sole tramonti.

Il sole ancora rovente, ma pieno di colore giallo, illumina gli ulivi, le masserie imbiancate a calce e la terra rossa dell’agro salentino: credo non ci possa essere niente di più caldo (nel senso del colore).

I come impatto ecologico
A Urupia si ricicla tutto: acqua (che finisce nell’impianto di fitodepurazione, per questo occorre lavarsi con saponi e detergenti da loro sperimentati e approvati), rifiuti (raccolta differenziata con compostaggio interno), vestiti, carta, legno, cianfrusaglie, qualunque cosa.

L’energia elettrica è fornita da un impianto fotovoltaico, mentre le macchine agricole e le automobili vanno ancora a combustibili fossili.

L’impatto totale appare comunque minimo.

M come mondo reale
Per riferirmi a tutto ciò che è esterno a Urupia, fin dall’inizio ho usato la locuzione ‘mondo reale‘. È stato del tutto inconscio, ma quando me l’hanno fatto notare, mi è piaciuto così tanto che ho deciso di chiamarlo così.

Per contrasto, questo significa che Urupia è il luogo dell’utopia, un utopia concreta e realizzata, ma che conserva per me quanto di ideale io ripongo nella vita in comune.

O come organizzazione del lavoro
Ogni settimana una comunarda, a turno, ha il ruolo di Uro, ovvero di regista delle diverse attività della comune. Presiede la riunione con cui comunarde e ospiti si auto-assegnano le responsabilità sulle operazioni della settimana, e cura le eventuali verifiche infrasettimanali per effettuare le eventuali correzioni di percorso.

L’Uro (vedi alla voce ‘Urupia’) è una figura della tradizione popolare, e chiamare così le comunarde denota un forte radicamento territoriale, peculiare del resto della stessa cultura anarchica.

P come pisciare in piedi
Stand Up For Your Rights,
but Sit Down When You Piss.

Così dice il cartello in uno dei bagni della Comune. A Urupia Comunarde e ospiti, anche quelli di sesso maschile, pisciano seduti. Nei loro bagni non c’è traccia dell’attrezzo noto come ‘tavola del cesso’ o ‘asse del water’.

Anche questo è un modo per perseguire la parità di genere: non si capisce per quale motivo, nel ‘mondo reale’, ai maschi sia concesso, dalla loro comoda posizione virile (in piedi), schizzare qua e là micro-gocce dei loro liquidi urinari, che qualcuno dovrà poi pulire. Questo qualcuno spesso non è l’autore  degli schizzi,  e spesso è di sesso diverso, quando non di razza, ceto e continente diversi.

La regola mi riempie di entusiasmo: personalmente l’ho sempre fatta seduto. Non per seguire ideali di parità di genere, ma semplicemente per l’imposizione di mia madre ai membri maschi della mia famiglia. Lei non aveva mai accettato, in una famiglia a maggioranza maschile, l’umiliante incombenza di pulire gli schizzi.

Ora lo so: non ero succube di una madre dittatrice, ero una comunarda! (P.S.: grazie, mamma)

P come prodotti
La fonte di denaro urupica è data da olio, vino e prodotti da forno. Per questo le comunarde ripongono in questi prodotti la massima cura. I clienti sono selezionati e diretti, non è facilissimo entrare a farne parte: occorre far parte almeno idealmente di questo mondo. In altre parole, occorre credere in Urupia, e l’acquisto di prodotti è un atto di sostegno concreto per la Comune.

L’olio si ottiene dalle olive coltivate nei terreni della Comune e in quelli a essa affidati, segue le rigorose regole dell’agricoltura biodinamica. In particolare, le olive sono raccolte solo a mano e frante in brevissimo tempo. I risultati, in termini di sapore e grado di acidità, sono spettacolari. E le olive che inevitabilmente cadono a terra? Semplice: sono vendute agli olivicoltori locali, a caro prezzo, anche, visto che si tratta di olive di ottima qualità, senza pesticidi e diserbanti.

Per il vino vale lo stesso discorso, chiarito anche alla voce ‘Spampinare’. I vini di Urupia sono semplici, non artefatti in cantina da botti di rovere o simili, e tutto questo per scelta consapevole. Ma portano dentro di sé il sole del Salento, e la loro gradazione è elevata. Ma, anche dopo una sbronza, nessun cerchio alla testa: solfiti e sostanze non naturali sono tenuti al minimo, per il piacere del bere e anche del risvegliarsi.

Per il pane, le frise, i taralli, i biscotti, le pizze… beh, non ci sono parole per descrivere quello che esce dal piccolo forno: bisogna solo assaggiare.

S come spampinare
Operazione che si fa sulla vite: privarla, sfoltirla dei pampini, perché l’uva prenda più sole. Togliere le foglie in più, portando alla luce i grappoli.

A Urupia patologie fungine come l’oidio si combattono così. Chi ha avuto, come me, la fortuna di dedicare qualche giornata a quest’operazione, può rendersi conto come non ci sia alcun valore monetario oggettivamente conseguibile che possa ripagare una fatica così grande.

Probabilmente la soddisfazione non è monetaria, e consiste nell’ottenere QUEL vino, con quella qualità. Solo quello, io credo, può ripagare giornate passate sotto il sole cocente a togliere le foglie alle viti.

Altrove, nel ‘mondo reale’, vi sono vinificatori che usano uva zeppa di pesticidi e antifungini sistemici (perché nessuno spampina più) e poi producono bottiglie di vino che rivendono a decine, talvolta centinaia di euro al pezzo. Così facendo mettono da parte abbastanza soldi da comprarsi letteralmente l’intera Valpolicella.

Nel mondo reale c’è qualcosa che non funziona, questo lo sapevamo già. Ma finché ci sarà ancora qualcuno che cura la vite a mano, il pianeta non  potrà dirsi condannato.

S come sperimentazione sociale
La Comune non vuole rifarsi, e nemmeno potrebbe, alle regole di convivenza civile del ‘buon tempo antico‘, idealizzato da molti ambientalisti contemporanei.

Era un tempo in cui l’industrializzazione, la globalizzazione e il liberismo non avevano ancora sconvolto le nostre vite. Ma anche un tempo, quello delle famiglie patriarcali e matriarcali, che cozza con i principi anarchici delle Comunarde. Inoltre, rifarsi acriticamente al passato mancherebbe del necessario adattamento alle mutate condizioni del genere umano.

La sperimentazione sociale è quindi una necessità, a Urupia. Necessità ben tollerata e anzi gradita, ma pur sempre una gravosa necessità.

Per esempio, mancano le nonne, essendo le comunarde più anziane ben al di sotto dei cinquant’anni, e con la loro mancanza si sente l’assenza delle competenze e delle esperienze da trasmettere alle madri e ai padri sulla cura e l’educazione dei figli.

È necessario un continuo adattamento delle regole di convivenza e delle relazioni sociali. E questo è uno dei pregi del vivere in Comune.

T come tecnologia
Non pensate di trovare a Urupia una sorta di tribù Amish. La tecnologia e le macchine fanno parte della vita delle comunarde, ma con il senso critico sempre vigile e all’erta, pronti come sono a discutere qualunque nuova istanza legata alla tecnologia.

Leggiamo sempre dai ‘primi punti consensuali’ del 1993: “La Comune rifiuta, in linea di principio, sia un’ottica consumistica che l’uso di tecnologie volte al consumismo. Accetta invece la realizzazione di un sufficiente grado di comfort per tutte le sue componenti e l’uso di oggetti e strumenti considerati ‘utili’ (acqua calda, riscaldamento, lavatrice, etc…).

Nella scelta di tecnologie di uso collettivo, tuttavia, la Comune considera l’utilità solo uno dei criteri per decidere se una tecnologia sia accettabile o meno secondo un’ottica anticonsumistica.

Altri parametri dei quali terrà conto saranno l’inquinamento (sia come effetto dell’uso che come conseguenza della produzione della tecnologia stessa), la nocività per chi la utilizza, le circostanze etiche e politico-economiche della sua produzione, etc. etc…

Sono rifiutate anche, in linea di principio, tecnologie suscettibili di attribuire posizioni di potere alle persone che ne fanno uso (in virtù delle conoscenze specialistiche necessarie per il loro utilizzo), soprattutto per quel che riguarda il settore della gestione amministrativa e finanziaria della Comune.

La Comune in ogni caso si impegna a sviluppare al massimo, anche in questo campo, la pratica del principio dell’autogestione e della diffusione delle conoscenze, proponendosi di diventare un vero e propio ‘laboratorio’, dove sperimentare e applicare tecnologie semplici, basate sull’utilizzo di risorse rinnovabili, in grado di assicurare il massimo di benessere e autonomia non solo alle individualità della Comune ma a tutte le persone che ne faranno uso.

U come Urupia
Urupia è una parola salentina, che significa più o meno l’atto dell’Uro. L’uro è una figura della tradizione popolare, simile allo gnomo o allo Hobbit. Ma non è casuale l’assonanza con la parola ‘utopia‘, per cui potremmo tradurre il termine con ‘utopia degli uri‘.

Gli spiritelli della tradizione popolare salentina rappresentano così le comunarde stesse, niente di più, ma niente di meno, che esseri fatati che si mettono di traverso tra le convenzioni del ‘mondo reale’, realizzando, almeno localmente, la loro grande utopia.