Gruppo “el Sélese”
Per il Distretto di Economia Solidale
Provincia di Verona

Il caso FIAT e i limiti della crescita

Ci agganciamo all’appello lanciato sul sito http://temi.repubblica.it/micromega-online/ per fare alcune considerazioni.

L’APPELLO:

Il diktat di Marchionne, che Cisl e Uil hanno firmato, contiene una clausola inaudita, che nemmeno negli anni dei reparti-confino di Valletta era stata mai immaginata: la cancellazione dei sindacati che non firmano l’accordo, l’impossibilità che abbiano una rappresentanza aziendale, la loro abrogazione di fatto. Questo incredibile annientamento di un diritto costituzionale inalienabile non sta provocando l’insurrezione morale che dovrebbe essere ovvia tra tutti i cittadini che si dicono democratici. Eppure si tratta dell’equivalente funzionale, seppure in forma post-moderna e soft (soft?), dello squadrismo contro le sedi sindacali, con cui il fascismo distrusse il diritto dei lavoratori a organizzarsi liberamente. Per questo ci sembra che la richiesta di sciopero generale, avanzata dalla Fiom, sia sacrosanta e vada appoggiata in ogni modo. L’inaudito attacco della Fiat ai diritti dei lavoratori è un attacco ai diritti di tutti i cittadini, poiché mette a repentaglio il valore fondamentale delle libertà democratiche. Ecco perché riteniamo urgente che la società civile manifesti la sua più concreta e attiva solidarietà alla Fiom e ai lavoratori metalmeccanici: ne va delle libertà di tutti.
(Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Margherita Hack)

Cosa sta facendo la Fiat ora? Niente di nuovo, sta ripetendo quello che da anni stava facendo e che del resto hanno fatto anche in molti altri settori produttivi: lo schema di azione si chiama delocalizzazione, l’abbiamo già visto, per esempio, nei settori del tessile o delle calzature.
La FIAT, in particolare, è sempre stata innovatrice: fu tra le prime aziende a delocalizzare, anche solo per entrare in mercati poveri con impianti e linee obsolete. Fu la prima a usufruire della cassa integrazione in maniera massiccia e continuativa e fu la prima a mostrare in Italia l’ipocrisia del sistema capitalistico, pagando dividendi contemporaneamente all’uso della cassa integrazione.
Ma oggi, rispetto al passato, ci sono tre differenze che rendono così impattante ed evidente questo passaggio: la prima è la velocità con cui si sta verificando la delocalizzazione su grandi impianti produttivi; la seconda è il ricatto vero e proprio: o rinunciate a diritti conquistati con anni di impegno civile o porto i soldi altrove; la terza è che avviene in un momento di crisi e non di sviluppo.
Con lo stesso cinismo e egoismo di sempre, questo modello economico sta applicando le stesse “leggi” di mercato del passato, con la differenza che ora esiste un’economia globalizzata e sempre più accentrata nelle mani di società che si muovono agevolmente da un paese all’altro alla ricerca del maggior profitto, incuranti, anzi, evidentemente infastidite dalla difesa dei diritti umani e della sostenibilità ambientale che sono viste come un fardello di cui liberarsi.
La certezza che il sistema sia sbagliato (e malato) ci viene confermata dalla vicenda FIAT, ma anche da altre ancor più spinose come quella della ThyssenKrupp, che mandò a morire sette operai in quanto non ritenne conveniente effettuare manutenzioni in uno stabilimento prossimo alla chiusura.

La cosa che più ci fa inorridire è che il meccanismo che sta alla base di questi sconvolgimenti disumani è tale da mettere le persone nelle condizioni di non sentirsi responsabili ed è perversamente semplice. Gli amministratori che gestiscono le scelte strategiche di queste società devono tarare le proprie decisioni sulle aspettative degli investitori, i quali a loro volta guardano solo al rendimento delle proprie azioni. Ogni amministratore sa che se non riesce ad aumentare il rendimento delle azioni al primo bilancio viene defenestrato perché non ha rispettato le attese degli investitori, di conseguenza gli amministratori di queste realtà saranno sempre più cinici e in tempi sempre più stretti, perché chi investe ha aspettative sempre più di breve periodo.

Gli investitori a loro volta non sanno, e probabilmente non vogliono nemmeno sapere, quali conseguenze genera lo spostamento dei propri investimenti alla ricerca del maggior interesse possibile. Si deve sottolineare che investitori oramai lo siamo quasi tutti e il fatto che la finanza etica in Italia rimane una realtà minuscola dà una misura dell’egoismo e miopia che regnano: siamo tutti noi che sosteniamo indirettamente questo modello, anche se non ci piace.

Di questo cinismo del sistema abbiamo avuto proprio di recente un caso illuminante nel veronese , il caso Glaxo: un’azienda che, a fronte di un bilancio in attivo dell’11%, ha valutato una perdita del 3% rispetto al 14% che si aspettava e ha, di conseguenza, tagliati i costi lasciando senza lavoro 550 persone.

Ma quello che ci preme mettere in evidenza è ben altro: in una prospettiva futura riteniamo che questi avvenimenti siano solo la punta di un iceberg, perché non crediamo che l’attuale crisi possa risolversi positivamente, nel breve (teme qualcuno) o nel lungo periodo. Cosa ci fa pensare che questa crisi sia destinata nel tempo ad approfondirsi sempre più?

Quella che stiamo vivendo è una crisi multidimensionale: agli aspetti finanziario ed economico (gli unici due che hanno fatto sentire la loro potenza) si sommeranno inevitabilmente quello energetico e dei materiali (sarà sempre più difficile e costoso procurarci le risorse necessarie alla sopravvivenza) e quello ambientale, in primis climatico.

Le grandi dimensioni e le varie implicazioni di questa crisi multidimensionale, rendono poco credibile ai nostri occhi la speranza di un suo superamento con la ricetta di sempre: la ripresa della crescita economica. Sono gli inevitabili limiti fisici del nostro pianeta a stabilire l’insostenibilità di questo modello. Il mondo dell’industria e dell’informazione, quello politico e quello sindacale continuano a puntare sulla crescita, a non voler ammettere irrazionalmente che, prima o poi, arriveremo all’esaurimento delle materie prime che sono indispensabili per questo modello di economia, prima fra tutte il petrolio.

Ci fa ulteriormente riflettere il crescente disagio sociale che riscontriamo nei paesi europei e non solo in questi: aumentano le situazioni in cui esplodono conflitti violenti. Il pericolo a cui stiamo andando incontro è che popolazioni abituate ad avere tante cose e a dare per scontato il poterle mantenere o addirittura aumentare non sia in grado di ridurre i propri bisogni per renderli sostenibili senza deviare verso forme di reazione violenta.

Le decisioni Fiat non possono che farci inorridire ma non ce la sentiamo nemmeno di schierarci a sostenere la necessità di investimenti sapendo che questi investimenti verranno utilizzati per la costruzione di nuovi SUV, automobili enormi e velocissime ispirate ai fuoristrada, assolutamente insostenibili ma che stanno occupando le nostre città e le nostre menti.

Purtroppo, come avevamo previsto, quando iniziano a cadere i pezzi di questo sistema i primi a pagare sono “poveracci” come noi che, volenti o nolenti, ricavano di che vivere dalle briciole del “sistema”, non siamo in grado di proporre progetti di riconversione in grado di garantire la salvaguardia di tutti i posti di lavoro, ma un ripensamento sulla possibilità di investire in linee di produzione di componenti per impianti a energie rinnovabili o in prodotti utili alla riduzione dei consumi può essere una via per iniziare una transizione verso forme di produzione più sostenibili.

Ci troviamo all’interno di una macchina enorme che sta andando a tutta velocità verso un muro (i limiti del pianeta). Arrestando la corsa della macchina siamo consapevoli che ci saranno milioni di esseri umani che si troveranno senza lavoro e senza di che vivere, se invece accettiamo di lasciarla correre temiamo che saranno molti di più gli esseri umani che ne pagheranno le conseguenze.

È il nostro grande conflitto irrisolto: incitiamo alla sobrietà ma siamo tutti, chi più chi meno, dipendenti dall’economia dei consumi ma, soprattutto, siamo ben consci che la generalizzazione di uno stile di vita come il nostro trascinerebbe letteralmente alla fame gran parte della popolazione: l’umanità si è infilata in un vicolo cieco e non crediamo ci siano per ora risposte salvifiche.

Possiamo solamente fare come il famoso colibrì della favola che, mentre tutti gli altri animali scappano dall’incendio della foresta, vola nella direzione opposta con il becco pieno di acqua e, a chi gli chiede cosa stia facendo, risponde: “faccio la mia parte”. Sosteniamo la necessità di iniziare un processo di transizione senza indugiare, dirigendoci verso una società in equilibrio con la Vita del nostro pianeta e senza illuderci di poter promettere il paradiso in terra per tutti.

L’attuale modello socio economico, frutto di un percorso voluto da generazioni di esseri umani che ci hanno preceduti, è stato realizzato con l’intento di creare le condizioni per una vita più felice per le generazioni successive. Questo intento, pur accettando la buona fede dei nostri predecessori, al giorno d’oggi è evidentemente fallito. Viviamo con una disponibilità di “cose” che nessuno prima di noi ha mai avuto, eppure abbiamo un tasso sempre più alto di uso di psicofarmaci, di droghe, di alcool, in età sempre più giovane , per non parlare delle esplosioni di violenza apparentemente inspiegabili, tutti fenomeni che segnalano un crescente e profondo malessere il più delle volte negato per quieto vivere.

Crediamo fondamentale che ognuno di noi debba iniziare un proprio percorso di transizione, cambiando il proprio stile di vita e sviluppando capacità relazionali più profonde sia con gli altri esseri umani che con ogni espressione della Vita del pianeta che ci ospita. Siamo convinti che l’unica applicazione intelligente della parola crescita è relativa ai potenziali umani più profondi, i soli in grado dare un vero senso di pienezza della vita senza mettere a rischio la sopravvivenza di innumerevoli esistenze, con tutto il carico di sofferenza che grava su tutti noi.

Ritorniamo alla proposta della zattera del Selese, un modello di economia che si basa su tante piccole comunità legate fra di loro da relazioni di reciprocità, solidarietà e mutuo sostegno, ognuna in grado di vivere in modo sostenibile con le risorse del proprio territorio, secondo un modello molto adattabile e in grado di resistere ai futuri cambiamenti (rarefazione delle materie prime e cambiamenti climatici), modello che non può essere garantito dall’attuale sistema monolitico, apparentemente onnipotente ma che si basa invece su fragilissimi presupposti che stanno oramai cedendo, con il rischio di un crollo devastante per tutta l’umanità.

La zattera del Sélese

Una zattera, formata da tanti tronchi legati assieme in un vincolo di solidarietà è più sicura rispetto a una nave formata da un unico scafo: per quanto improbabile sia la rottura dello scafo, quando avviene il naufragio è inevitabile.

Il sistema a zattera è il più adatto ad affrontare gli inevitabili cicli di crisi/prosperità.

L’economia mondiale attuale è del tipo non modulare: efficiente in periodi di stabilità ma con un’enorme dipendenza da fattori produttivi sempre meno controllabili (essenzialmente energia e materie prime). Questo è il motivo principale del disastro economico in atto.

La Zattera del Sélese consiste nella formazione di distretti economici di piccole dimensioni, che chiamiamo appunto Distretti di Economia Solidale, in virtù della loro dimensione e del tipo di legame sociale che li unisce e caratterizza.

Questa opzione comporta il riacquistato controllo da parte delle comunità di persone, necessariamente piccole comunità, sull’economia locale e sulle filiere produttive, sul loro rispetto per i diritti umani e la loro sostenibilità ambientale.

Ciò permette di valorizzare anche forme di ricchezza sociale, come la salute degli ecosistemi, la qualità della giustizia, le relazioni tra i componenti di una società, l’uguaglianza, l’armonia e quelli che chiamiamo beni comuni, come l’acqua e l’aria, che non sono quantificabili con il PIL.