L’attuale difficile periodo economico e sociale, letto attraverso le parole di Gandhi.

 

La crisi che stiamo attraversando, lo sappiamo, ha radici lontane. E’ il frutto di concezioni economiche che hanno permesso la crescita ipertrofica della finanza a discapito dell’economia reale e che hanno ridotto la politica a semplice servitrice degli interessi del ‘Mercato’.

Sull’altare della globalizzazione finanziaria ed economica le società occidentali hanno sacrificato quell’idea di Welfare State che è stata la loro prospettiva politica dal secondo dopoguerra e che doveva rappresentare, in contrapposizione ai totalitarismi, l’affermarsi della democrazia, della solidarietà, della giustizia, in definitiva della ‘Civiltà’.

Tra le conseguenze più evidenti di questa dinamica vi è l’assoluta incertezza e la mancanza di nuove proposte sul tema del lavoro. Come vediamo, infatti, il dibattito si è ridotto ad invocare una ipotetica, e assolutamente improbabile, crescita economica che dovrebbe, ancora una volta, risolvere il problema.

Ma intanto gli alfieri delle teorie liberistiche dominanti continuano ad affermare che è più che legittimo, anzi assolutamente auspicabile, ridurre il più possibile il costo del lavoro, e ciò avviene principalmente con la delocalizzazione della produzione in luoghi dove si può pagare un operaio anche 50/60 volte meno rispetto all’Europa.

Siamo quindi in una congiuntura nella quale un sistema economico perverso rischia di farci perdere quelle conquiste sociali che credevamo ormai acquisite definitivamente, almeno in Occidente.

In una situazione per certi versi analoga si trovava l’India alla fine della prima guerra mondiale, nel momento in cui inizia a presentarsi sulla scena politica Mohandas Gandhi.

L’economia coloniale inglese era ovviamente indirizzata allo sfruttamento, che si esplicava prima di tutto depredando di materie prime il subcontinente indiano. Nel contempo però vi era una massiccia esportazione in Asia di beni britannici che, grazie alla produzione industriale, venivano a costare molto meno rispetto a quelli prodotti localmente a livello artigianale. Una realtà, se vogliamo, rovesciata rispetto a quella attuale dove i prodotti cinesi o anche indiani costano infinitamente meno rispetto a quelli occidentali grazie soprattutto al bassissimo prezzo della mano d’opera.

Ma anche in questo caso il degrado, ben più che meramente economico, era primariamente di carattere sociale perché comportava il declino inesorabile dell’organizzazione comunitaria indiana tradizionale del villaggio basata sull’autosufficienza, sulla solidarietà e, soprattutto, sull’etica del lavoro. Le conseguenze principali erano l’enorme inurbamento, l’abbandono delle campagne e la perdita dei saperi tradizionali.

A questi problemi Gandhi ha dedicato gran parte della sua azione e della sua riflessione politica contrapponendo alla globalizzazione coloniale il concetto di Swadeshi, nel quale viene riassunto il modello basato sull’autosufficienza e l’autonomia economica e politica dei villaggi.

Il Mahatma è conosciuto fuori dall’India soprattutto per la sua campagna per la fine del colonialismo britannico ma la maggior parte del suo lavoro è stato dedicato a rinnovare la vitalità del popolo e a rigenerare la cultura indiana. La fine del colonialismo doveva coincidere per Gandhi con la cessione da parte del governo centrale della maggior parte del potere alle comunità locali.

Per Gandhi il vero spirito dell’India risiedeva nelle comunità dei villaggi. Diceva: ‘La vera India non si trova nelle sue poche città ma nei suoi settecentomila villaggi. Se i villaggi periscono, anche l’India perirà’. Swadeshi è quindi un programma economico a lungo termine imperniato sull’idea di resilienza.

I principi dello Swadeshi

La visione gandhiana di una India libera non era quella di uno stato-nazione ma di una confederazione di comunità-villaggio capaci di autosufficienza e autogoverno. Il massimo potere economico e politico, tra cui la capacità di decidere quello che può essere importato e quello che può essere esportato, doveva rimanere nelle mani delle assemblee di villaggio.

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