Riceviamo e volentieri pubblichiamo la lettera di Vincenzo su un argomento che tocca da vicino i veronesi, soprattutto dalle parti di Cadidavid.

Shiva vive in India, nella città di Karur, nello stato del Tamil Nadu. La città si trova al centro di una regione a forte vocazione tessile, per la cui economia IKEA è molto importante. Il 25% di tutta la sua lavorazione tessile finisce infatti sugli scaffali IKEA. Shiva ha trent’anni, lavora 6 giorni alla settimana per 12 ore al giorno. Guadagna 2300 rupie (circa 40 euro) al mese, ma ne spende 500 soltanto per andare al lavoro in autobus. Con il suo stipendio vivono in tre: lei, suo figlio e l’anziana mamma. La loro casa misura 45 metri quadrati, due stanze: due giacigli, due bauli, niente arredo, si cucina direttamente sul fuoco: zuppa e soprattutto riso col sugo, carne sì e no una volta alla settimana.

Manyula, amica di Shiva, è sposata ed ha appena avuto un bambino. Anche lei lavora come operaia in un’industria tessile, appaltatrice o sub-appaltatrice per IKEA. La sua abitazione assomiglia più ad un tugurio che ad una casa di due giovani sposi. Due stanze, 30 metri quadrati, fungono da dispensa, salone, cucina e camera da letto. La pietra è grezza, ci si siede in direttamente sul pavimento, doccia all’esterno, all’aperto, gli utensili per la cucina sono ammucchiati in un angolo della stanza.

Questo mese ha lavorato 24 giorni ed ha guadagnato 1818 rupie (circa 33 euro).

Sonia, potrebbe essere cugina di Shiva e Manyula, vive però in Bangladesh. Divide una stanza con altri operai, lavora 15 ore al giorno, dalle 8 alle 23, e, se capita, si ferma fino alle una del mattino. Può darsi che una delle nostre coperte o uno dei nostri caldi piumini IKEA sia passato dalle sue mani. Tranquilli, è sicuramente di qualità: su 300 pezzi che Sonia produce, 25 o 30 le vengono rifiutati perché imperfetti. E’ pagata a pezzo.

Come può un cliente IKEA, percorrendo i reparti, immaginare la provenienza dei prodotti? Come può, prendendo in mano un tessuto in seta o un asciugamano, immaginare che è stato realizzato in condizioni incivili ed indecenti? Dovrebbero esserci delle macchie di fango e la superficie dovrebbe essere meno morbida al tatto. Come credere che prodotti perfetti provengano da luoghi socialmente indegni, in cui il lavoro non è altro che una questione di sopravvivenza?

I prezzi sorprendentemente imbattibili hanno una ragione, ed un costo.

In questi ultimi mesi si è sviluppato un certo dibattito a Verona in seguito alla proposta IKEA di aprire un mega-centro commerciale e logistico verso Cà di David, nell’ex area Biasi(…ma guarda un po’,…proprio nell’area del plenipotenziario presidente della Fondazione Cassa di Risparmio…).

In diversi sono intervenuti e a diverso titolo: organizzazioni di categoria, partiti, commercianti, industriali, associazioni di cittadini preoccupati per l’impatto ambientale e viabilistico, politici sponsorizzanti l’operazione come impulso positivo allo sviluppo e al progresso della nostra città, perfino il settimanale cattolico diocesano “Verona Fedele” ha aperto in prima pagina su questo argomento. Nessuno però, dico nessuno, si è preoccupato di informarsi e di informare su cosa è e rappresenta IKEA. Quale modello di sviluppo sottintende il suo proporsi in tutto il mondo. Nessuno ha avuto la forza e l’energia per mettere in discussione un progetto che si può definire di gigantismo industriale. Esso è basato sulla sovra produzione ed il sovra consumo: vendere sempre di più, qualcosa di sempre meno caro, da conservare sempre meno a lungo.

Il patrimonio di simpatia che questa azienda si è costruita negli anni, ha addormentato le coscienze, compreso quelle più “di sinistra”. La suadente comunicazione, il marketing ossessivo (basti pensare che il catalogo IKEA, distribuito gratuitamente, è il libro più stampato e diffuso sul pianeta terra!), il modo di proporsi -“noi, prima di essere un’azienda, siamo uno stile di vita”-, hanno contribuito a non prendere in considerazione le critiche, e addirittura le campagne di boicottaggio, che pure, fin dagli anni ’90, sono piovute addosso al colosso svedese. Accuse diverse e pesanti in materia di deforestazione, di impiego di sostanze tossiche ed inquinanti nella produzione dei suoi articoli, di sfruttamento del lavoro minorile presso i fornitori dell’impresa e addirittura sulle trascorse simpatie filo-naziste del fondatore e creatore di IKEA, Ingvar Kamprad. L’azienda ha attuato la politica “del muro di gomma”, ha incassato le proteste, non ha negato le critiche, senza ammettere sostanzialmente niente, ma, sbandierando a tutto il mondo le sue buone e sane intenzioni, ha cooptato come partner organizzazioni famose e riconosciute tipo l’UNICEF, il WWF, Save the children, Greenpeace, ecc.

Dal punto di vista societario, Ikea è una vera e propria nebulosa, un ginepraio inestricabile fatto di scatole cinesi. Basti pensare che il suo titolare, così innamorato dello stile svedese, ha lasciato da anni la sua patria per stabilirsi personalmente in Svizzera (ma va?!) ed ha trasferito anche la sede della casa-madre nei Paesi Bassi, ponte privilegiato per i tristemente noti paradisi fiscali.

Dal punto di vista culturale Ikea propone l’uniformazione del gusto, dello stile e delle abitudini

a livello planetario. Ovviamente però lei si presenta come “la possibilità di personalizzare la tua casa”. Un’impressione di diversità a livello personale che si accompagna ad una drastica omologazione a livello mondiale. In Giappone come in Cina, in Polonia come in Francia, in Italia come in Russia, tutti avranno lo stesso divano…, ma lo potranno scegliere in cinque colori diversi!

Ho preso molte informazioni e stimoli , che qui cerco di riportare , da un libretto scritto nel 2006 da tre autori, Oliver Bailly, Denis Lambert, Jean Marc Caudron, edito in Italia da ANTEPRIMA e intitolato”IKEA, che cosa nasconde il mito della casa che piace a tutti”. Ne riporto testualmente un brano significativo:”La politica IKEA, ha espulso il mobile dal patrimonio familiare per trasformarlo in prodotto di consumo. D’accordo, ereditare il comò della nonna, costruito dal nonno nel 1923 e che non si può assolutamente buttare perché -<capisci, c’è un po’ di tuo nonno che respira in quel legno>- non è sempre il massimo. Ma se IKEA continua la sua espansione, state tranquilli, l’anima del nonno dovrà trovarsi un altro posto perché questo tipo di eredità non esisterà più. Due o tre traslochi e quattro mode più avanti, lo scaffale sarà crollato e arrederà la discarica.”

Io sono un artigiano, faccio il falegname a Verona da 30 anni. Ho visto espellere dal centro storico tutte le botteghe dei miei colleghi, li ho visti chiudere. Ho assistito al disintegrarsi del famoso distretto del mobile d’arte della Bassa veronese. Non hanno chiuso solo i piccoli laboratori in città, sono saltate anche in provincia diverse aziende con tanto di marchio registrato e show-room.

Si perdono dei saperi (non c’è più neanche una scuola per falegnami), si disperdono delle competenze, si creano dei vuoti, finisce un mondo di relazioni. La risposta politica è stata inerziale…, e adesso si preparano a modificare anche il piano regolatore e viabilistico per far posto al colosso svedese.

Alcuni mi hanno detto”sei fuori dal mondo, hai perso il trend, non sei stato capace di ammodernarti, hai dimostrato di non essere flessibile, non hai saputo leggere il mercato…”. Avranno anche ragione, ma se il nuovo è l’IKEA…, meglio presidiare il nostro vecchio posto di lavoro. Il mio obsoleto banco di lavoro da falegname diventa il simbolo della resistenza culturale ad un certo tipo di sviluppo che ha solo il denaro come metro di giudizio e non certo il benessere collettivo.

Non so se ci riuscirò, non so cosa accadrà e come andrà a finire. So con certezza che per me non c’è posto nell’Agenda Monti… . E’ Natale, troveremo riparo in una specie di stalla…, ma non parteciperemo alla mangiatoia.

Io so che questa riflessione potrà infastidire tanti amici che sicuramente hanno in casa un tavolo dal nome proprio strampalato, una sedia con la Ø o con la å, oppure una libreria “Billy”. Non vorrei assolutamente suscitare in loro inutili sensi di colpa, d’altra parte è inconcludente anche per me ascoltare le loro mille e valide giustificazioni che possono sostenere e costruire mille coerenze. Mi piacerebbe che questa lettera andasse oltre e potesse essere scritta collettivamente, vorrei che potesse non ridursi ad un urlo nel silenzio.

Io non sono un giornalista, non faccio inchieste. E’ pieno di giornalisti, anche a Verona. Ne conosco diversi e con alcuni potrei definirmi amico. Le facciano loro le inchieste, diffondano loro le informazioni obiettive. Si sveglino dal loro comodo letargo che li vede impossibilitati non a guardare, ma a vedere la realtà (sotto la coltre del loro stipendio, che è il triplo di un mio altrettanto amico operaio, che fa i turni e lavora anche la notte). L’Arena, il mausoleo dell’informazione veronese, li ha imbalsamati e fatti convinti che loro compiono quotidianamente il loro dovere e possono dormire il sonno dei giusti. Questa è una lettera aperta anche a loro. In questo momento io non cerco né torto né ragione: mi piacerebbe condividere una riflessione, anche per non sentirmi troppo solo.

Non ho nessuna intenzione di aprire un dibattito o una vertenza con IKEA. D’altra parte conosco, per averle lette, ed in parte immagino le buone ragioni di tutti coloro che hanno teorizzato e praticato la delocalizzazione e di chi sciorina certificazioni di qualità a raffica, ISO 9000, ISO 14000, SA 8000, ecc…., ma non riuscirebbe a sostenere lo sguardo dei figli delle varie Shiva, Manyula, Sonya, ecc… .

Sono d’accordo con chi dice che le cose essenziali non possono essere viste soltanto con gli occhi della ragione.

La nonviolenza non può essere semplicemente evocata come una limpida presa di posizione ideologica. In questa maniera perde tutta la sua energia propulsiva, al massimo rassicura i quieti, quelli che vogliono essere lasciati in pace, perché stanno bene così.

La nonviolenza va esercitata, non predicata ex-cathedra. Il luogo per esercitarla è il conflitto, al di fuori dell’area conflittuale siamo tutti facilmente nonviolenti ed ottimi produttori di sermoni. Ho imparato sulla mia pelle quanto sia inconcludente, controproducente e spiritualmente devastante l’ergersi a maestro, a insegnante della materia

Il conflitto -a qualsiasi livello: individuale, sociale, collettivo, aziendale, istituzionale, generazionale, economico, ecc.- è la normalità nel mondo delle relazioni, nel mondo cioè che sostanzia la nostra vita di umani: abbiamo bisogno gli uni degli altri.

La relazione vera, sincera, interessata all’altro, non può evitare le collisioni: l’arte di gestirle è la concreta sperimentazione della nonviolenza. E’ proprio questa esperienza che ci fa incontrare con chi “è sempre accovacciato sull’uscio della nostra casa”: abuso, privilegio, corruzione, violenza, prepotenza, indifferenza… . Ogni volta che apriamo la porta, cioè ci mettiamo in relazione con l’altro, rischiamo di risvegliare e di far entrare dentro di noi inquilini indesiderati, rifiutati, scongiurati, inimmaginabili. Anche le “cose”, quelle più comuni, mediano le nostre relazioni.

Se decrescere è il verbo che dobbiamo coniugare, coniughiamolo insieme. Basta un pensiero comunicato, ne farò un collage e lo rilancerò in rete. Risponderemo insieme all’eterna domanda di senso: “falegname col martello

perché fai deng deng,

con la pialla su quel legno

perché fai fren fren…?”

Auguri a tutti per un buon 2013.

Vince