Questa riflessione nasce dal confronto avviato all’interno del Tavolo RES, un gruppo di persone appartenenti per lo più ai GAS, che stanno lavorando a livello nazionale per cercare di favorire la costituzione di una rete più solida. L’occasione nasce dal dibattito in atto per l’organizzazione  del convegno GAS nazionale 2013.

Deborah Lucchetti pone dei quesiti, prosegue riflettendo su quello che accade e poi lancia un accorato appello al mondo dei GAS.

Perché abbiamo fallito o rischiamo di fallire nella nostra mission fondamentale? O perchè le imprese ecosol si stanno trovando nel vortice della crisi senza risposte e semmai uguali se non più fragili rispetto a quelle convenzionali?

L’economia solidale esiste? ” Le istituzioni hanno trovato la loro origine nell’immaginario sociale. Questo immaginario deve intrecciarsi con il simbolico, altrimenti la società non avrebbe potuto “riunirsi” con l’economico funzionale, altrimenti essa non avrebbe potuto sopravvivere” (c. Castoriadis)

Durante il convegno di apertura dello sbarco dell’Aquila nel 2011 portai all’attenzione un punto di allarme che ritrovavo costantemente nella mia esperienza di analisi e di campo: lo chiamai il paradosso dell’economia solidale senza economia, riferendomi al fatto che nel movimento ecosol se da una parte si registrava una crescita esponenziale della domanda consapevole (i gas), a questa non corrispondeva affatto una altrettanto imponente crescita dell’offerta solidale. La terra è bassa, si dice. Come se stessimo assistendo alla crescita di una creatura squilibrata, con una testa vorace e gigantesca (i consumatori) ma braccia e gambe piccolissime e fragili (i produttori). Senza voler qui attribuire in alcun modo un valore superiore alla “testa”, semmai portatrice di prospettive sterili quando agisce separata dal corpo, svilito e taciuto nella sua enorme potenzialità di agente di cambiamento.

Il movimento eco-sol, vittima della stessa cultura che impregna negativamente la storia dei movimenti sociali a occidente per cui la parola è al di sopra dell’azione, ha lavorato molto e bene nella direzione di contribuire (non da solo) a istituire un nuovo immaginario. Decine di migliaia di persone oggi potrebbero “riunirsi” sotto la bandiera del cambiamento strutturale che proponiamo. Invece il movimento non ha considerato come strategica quella “dimensione economica funzionale”, che avrebbe consentito (o che consentirebbe) la nascita di nuove istituzioni -nel nostro caso imprese economiche solidali -atte a garantire la stessa sopravvivenza e successo del nuovo piano simbolico evocato. Ecco, oggi potrebbero essere decine di migliaia -forse lo sono già -le persone riunite in gas 0 organizzazioni informali disponibili a cambiare i propri acquisti, riconquistate a un immaginario che parla di un’economia positiva, vicina e tangibile, di buoni lavori e territorio, di prodotti sani, giusti e puliti.

Ma dove sono le imprese solidali, i produttori che possono soddisfare questa domanda crescente? Dove sono le braccia e le gambe pensanti che sono il cuore strutturale di questo cambiamento, senza le quali non c’è speranza di riconversione ecologica, di protezione e presidio del territorio, di sviluppo di un’ecologia profonda e diffusa che rimette in equilibrio le parole con i fatti, e ci riconcilia con il limite. E come stanno quelli che ci hanno provato? Li conosciamo, abbiamo chiari i loro volti, le loro storie, le loro fatiche? Sappiamo quanti sono, dove opera no, cosa Ii ha portati li, quali sfide hanno dovuto affrontare, quali sono i loro bisogni? Ci interessa capirlo? Dimenticati e osteggiati dalla politica, che semmai costituisce uno dei peggiori pericoli da cui rifuggire, i (piccoli) produttori eco-sol sono stati trascurati in quanto soggetti sociali contitolari del cambiamento da un movimento eticamente orientato, che rischia di scambiare la solidarietà con un’attitudine normativa (il consumo critico pub essere uno strumento di rating freddo e funzionale in assenza di legami forti).

Un movimento, quello dei gas, che rischia di esse re sempre più richiedente, spostando sulle spalle dei produttori buona parte degli oneri della transizione. In fondo il consumo critico quando si fa acquisto consapevole rischia di degenerare in una sorta di imperativo etico che giudica chi e giusto e chi no da una parte, senza nessuna proposta credibile di accompagnamento e co-costruzione capace di sostenere i produttori nella riconversione. Mentre, dall’altra, rischia di accettare passivamente le proposte del mercato green (quello astuto e camaleontico) che adegua l’offerta agli standard etici formalizzati in maniera rapida ed efficiente, senza però necessariamente intraprendere un cambiamento del modello di sviluppo (la rappresentazione involutiva di Fa la Cosa Giusta a Milano e di tutta l’industria fieristica della sostenibilità docet)

1 Mi riferisco qui in particolare all’esperienza di Fair e al lavoro di ideazione e costruzione della filiera tessile Made in No e dell’emporio solidale Manifattura Etica

Del resto gli stessi gasisti, fuori dal momento identitario che il gas produce, sono anche lavoratori, spesso sempre più precari e flessibili, disoccupati o in cassa integrazione, soli a fare muro contro il disastro economico che avanza e divide, e rende sempre meno possibile e forse anche accettabile pagare un prezzo più alto per prodotti sostenibili, riportando nelle vite di molti 10 spettro delle povertà e dell’insicurezza sociale. Anche su questo dovremmo riflettere, sulla possibilità stessa che i gas possano continuare ad esse re motore della crescita e della tenuta delle realtà produttive solidali. E sulla necessità di individuare con urgenza meccanismi solidali mutualistici per sostenere le famiglie in stato di crisi in un paese che ha dismesso il welfare. Ma torniamo all’onere della produzione. Alle sfide che un produttore -agricolo o artigiano che sia -si trova di fronte quando intraprende un’esperienza imprenditoriale. Proviamo ad elencarne alcune:

1              Reperire i fondi per gli investimenti di medici e lungo periodo

2              Individuare le giuste competenze professionali e solidali

3              Investire in la ricerca e lo sviluppo

4              Prevenire e gestire gli impatti socio-ambientali dell’intera filiera produttiva.

5              Correre i rischi economici e reputazionali legati alla possibilità di fallire, perdere, sbagliare

6              Trovare i mercati e raggiungerli

7              essere fedeli ai valori e non fare compromessi, pena la perdita di rating da parte dei consumatori etici

8              Generare buona occupazione rispettando gli oneri contrattuali

9              produrre bene, con qualità e continuità

10           pagare le tasse e contribuire alla fiscalità generale.

 

Ecco, questi compiti sono altissimi, sono sfide difficili o impossibili da sostenere in assenza di reti e supporti, di politiche attive per l’impresa. Infatti, l’economia convenzionale si è dotata di enti e strumenti (finanziari, giuridici, bancari) oltre che di norme per fare in modo che il sistema giri. Non sono sfide nuove, anzi. A queste stesse sfide il sistema cooperativo ha dato risposte di sistema che lo hanno portato a tradire i suoi stessi valori originari, prendendo la via della crescita (economie di scala), dei mercati convenzionali (GDO), del gigantismo economico e finanziario, della spersonalizzazione del lavoro.

Per restare più vicino alle nostre esperienze, il commercio equo e le grandi ONG hanno scelto la via della “professionalizzazione”, affidando la gestione organizzativa e commerciale a manager provenienti dalle multinazionali. Con l’illusione di sposare l’efficienza con la mission. Chi invece e rimasto ancorato alle dimensioni valoriali originarie senza innovare e professionalizzare, rischia di scomparire, incapace di sopravvivere su un mercato sempre meno solidale e sempre più competitivo. Esiste un altro modello organizzativo sostenibile per coniugare efficienza, solidarietà, valori e pratiche entro una prospettiva di limite? Siamo in grado di dimostrare che funziona?

Mi chiedo: ma noi abbiamo idea di cosa significhi produrre? Ovvero rilocalizzare l’economia, oggi, in Italia, in un contesto sociale, culturale ed economico fragilizzato e svuotato dalla delocalizzazione selvaggia, privato di comunità territoriali forti e connesse? 0 forse, vittime come siamo della riduzione sociale a puri consumatori esercitata dai processi di globalizzazione che hanno azzerato il lavoro come soggettività politica e sociale, siamo ciechi e sordi di fronte al pulsare della vita produttiva, alle sue dinamiche e complessità, alla necessita di concretezza, fedeltà e radicamento che questa comporta? L’esperienza dei gas, se non si ancora saldamente a quella delle imprese solidali, rischia l’evanescenza e la volatilità, e pub essere anche dannosa nella misura in cui si pone come orizzonte illusorio e seduttivo.

L’errore che abbiamo compiuto consiste anche -credo -nel non aver riflettuto (dandoci spazi, strumenti e tempi adeguati) sui senso della transizione per noi, in termini economici e di impresa. Non abbiamo studiato alla scuola della vita, non abbiamo ascoltato i segnali e le esperienze dei territori, se non per celebrarne in maniera autoreferenziale l’esistenza. Abbiamo scritto un libro -11 capitale delle relazioni -ma non abbiamo esplorato davvero le implicazioni di quello che andavamo dicendo, la realtà viva delle cose.

La realtà è che oggi -se facessimo un censimento reale -probabilmente scopriremmo che la gran parte delle imprese cosiddette solidali se la passa malissimo, strozzate dalle stesse iatture che denunciano i piccoli imprenditori da nord a sud: stretta creditizia, ritardi nei pagamenti, zero risorse per gli investimenti, stipendi arretrati di mesi, impossibilita di pianificare la produzione, crollo 0 crisi delle vendite, incapacità gestionale cronica, indebitamento bancario, auto-sfruttamento, non accesso al mercato.

La stessa situazione di tanti artigiani, negozianti e piccoli imprenditori nel nostro paese. Solo che queste sono le “nostre” imprese, quelle che scriviamo sui libri, quelle cui facciamo i complimenti e gli auguri alle fiere. Quelle che non compaiono mai nei panel dei nostri incontri nazionali e che non sono quasi mai coinvolte nelle discussioni strategiche.

Ecco, io penso che abbiamo poco tempo. Prima che molte di queste si spengano in silenzio, lasciando persone e organizzazioni sole con il proprio fallimento. Prima che le poche che sopravvivono, operino, a malincuore scelte di pesante compromesso per conservare i posti di lavoro. Mentre le imprese profit (quelle grandi e insidiose) del mercato convenzionale conquistano nuovi mercati etici, forti dei loro fatturati “spuri”, con cui possono permettersi di giocare in perdita nel campo dell’economia pulita.

Che fare

Credo che abbiamo la responsabilità, tutti insieme di affrontare il cuore del problema. Non possiamo avere paura di mettere il dito nella piaga, di guardare fin~ in fondo quello che la realtà ci dice. Illustri pensatori ed economisti ci dicono che, nonostante il continuo avanzamento delle elaborazioni e delle riflessioni in merito alla necessita di cambiare rotta e modello di sviluppo, non esiste ancora una macroeconomia della decrescita o della della prosperità senza crescita. Stiamo operando in una situazione di rischio e di anomia, come accade quando si sprigiona il conflitto massimo tra un modello in crisi ormai alla frutta e una realtà istituente ancora priva dei dispositivi e delle strutture idonee a farla sopravvivere.

Siamo qui nel mezzo, in uno spazio del “non è più” e del “non è ancora” che da le vertigini. Se dovessimo metaforicamente collocare i soggetti su questa linea di transizione, i gas paiono proiettati mentalmente nel non ancora” ma spesso sono ancora saldamente ancorati nel presente in declino (quanti gasisti vorrebbero cambiare vita e lavoro perchè si sentono la Penelope dell’altraeconomia ma non possono, non trovano la forza o l’opportunità). I produttori solidali invece si sono buttati testa e mani nel “non ancora”, spinti dalla fiducia nei gasisti che pero non è in grado di sostenerli davvero, e si trovano fragili e traballanti a meta del guado, indietro quello che hanno lasciato (la fabbrica, il lavoro conto terzo, i clienti della grande distribuzione o le multinazionali), davanti non si sa bene cosa.

Credo che abbiamo il compito, tutti insiemi e senza indugi, di istruire un percorso serio e inclusivo per capire cosa sta succedendo, cosa vogliamo costruire, quali sono le condizioni e gli strumenti necessari, i tempi, le risorse e le accelerazioni indispensabili a produrre esperienze generative e solidali, mutualistiche e reali, produttive e sostenibili. Scaduto il tempo dei convegni, degli auspici, dei tempi lenti e lunghi propri della semina culturale. Oggi è tempo dell’azione, della solidarietà, dell’organizzazione, dell’efficacia, delle alleanze, della mutualità, della scommessa personale e collettiva.

E’ anche il tempo di prendere parte, di fare la propria parte, tutti. Non più solo con l’acquisto solidale, con le parole che scaldano. E’ tempo che ciascuno scelga in che modo da subito può sostenere nel concreto la grande transizione cui siamo chiamati, a partire dal sostegno concreto e organizzato alle realtà che hanno fatto il salto e rischiano di cadere nel vuoto. Perché chi ce la fa da speranza, ce la fa per tutti quelli che seguiranno. Ci serve -credo -intraprendere un nuovo percorso meno intellettualista, più marcatamente pragmatico e ambizioso, fortemente ancorato ai territori, mai disgiunto dal pensiero che nutre e si fa nutrire dal radicamento nella terra e nella realtà .

Ci serve studiare la realtà, a contatto con protagonisti che si stanno giocando la vita dentro e per un’economia nuova, ma non sono quasi mai sui palchi dei convegni. Abbiamo la necessità di assumere collettivamente la responsabilità delle imprese solidali presenti e future, uscendo definitivamente dalla logica liberale per cui domanda e offerta si incontrano su curve di equilibrio quando maturano il miglior vantaggio reciproco Ci serve lavorare di testa, di cuore e di mani per aumentare la massa critica di esperienze imprenditoriali in grado di “crescere” secondo criteri solidali e cooperativi chiari, condivisi e pubblici, perchè chiunque possa avvicinarsi e transitare verso il futuro sapendo quali sono i salti da compiere, non da soli.

Ci serve elaborare un vero piano di soccorso e sviluppo (nazionale su base regionale?) con strumenti e risorse necessarie a tentare di reggere l’urto della crisi e contemporaneamente accompagnare la nascita di nuove start-up, ipotizzando incubatori di impresa solidale che beneficino delle migliori competenze a livello territoriale, in grado di svolgere funzioni di tutoraggio orizzontale.

Venendo allo sbarco, spunti per l’organizzazione:

Penso opportuno un percorso -agile ed efficace -con i seguenti obiettivi:

1              esplorare le ragioni della crisi e del (possibile) fallimento delle imprese ecosol, con l’emersione dei punti di crisi delle esperienze in corso, dando voce a queste esperienze produttive e ai circuiti reali di scambio di prodotti e/o servizi (filiere e/o territori). Fare emergere anche i punti di successo.

2              analizzare le conseguenze, gli impatti sulla vita delle persone, dei lavoratori/produttori e sui territori che queste esperienze hanno prodotto, in positivo e negativo.

3              analizzare quali alleanze/soggetti sono stati coinvolti, quali no, perchè? e cosa questo ha prodotto?

4              Individuare piste operative da rilanciare sui territori, definire strumenti, infrastrutture solidali e modalità collaborative tra soggetti e tra territori

5              Individuare finanziamenti e progettazioni comuni.

 

E’ molto importante avviare che questo percorso sia inclusivo e alla pari, e coinvolga: -produttori -gas -enti locali, laddove si sono sviluppate interazioni interessanti e reali per la promozione e lo sviluppo di imprese / filiere solidali / distretti locali -banca etica e mag.

Sarebbe interessante organizzare una giornata di emersione con i produttori prima delle sbarco (maggio?) in modo da approdare in Puglia con materiale vivo su cui riflettere e utilizzare gli esiti per produrre avanzamenti concreti, accessibili e utili per i territori.

Deborah Lucchetti