La tecnologia con i suoi nuovi strumenti è la risposta giusta ai problemi sempre più complessi che ci attanagliano? Sarà in grado di mantenere la promessa di una vita più godibile e ricca di bellezza?

Inizio citando un passaggio dal libro: La morte della natura di Carolyn Merchant, che ritengo sia una interessante lettura storico filosofica del passaggio nella cultura umana da una natura madre a una natura macchina: “Il nuovo uomo di scienza non deve pensare che l'”inquisizione della natura sia in qualche parte interdetta o proibita”. La natura deve essere “obbligata a servire” e resa “schiava”, costretta e torturata dalle arti meccaniche. Gli “indagatori e informatori della natura” devono scoprirne i complotti e i segreti”. Questo scriveva Bacone nel 1620!

In soli 400 anni, seguendo questo approccio filosofico, siamo riusciti a diventare gli indiscussi dominatori del mondo intero, ma questo risultato ci ha permesso di godere maggiormente la bellezza della vita?

Altra domanda: la promessa di risolvere i problemi che stanno emergendo con nuove tecnologie sempre più sofisticate è credibile? Senza dimenticare che stiamo mettendo a rischio la nostra stessa sopravvivenza di genere umano, e questo di certo non è bello.

La promessa di nuove tecnologia salvifiche si scontra con le prime due leggi della termodinamica perché ci inchiodano ai limiti insormontabili ai quali siamo soggetti, e spesso sono sconosciute o rimosse perché “scomode”; spiegandole in modo molto semplice: la prima legge dice che nulla si crea né si distrugge, ma si trasforma, passando da una forma a un’altra, la seconda legge dice che ogni volta che avviene una trasformazione non si può ritornare alla forma originale e rimarrà a disposizione una quantità minore della forma originale. Queste leggi valgono per tutte le materie indispensabili per la nostra tecnologia.

Ma al di là della sostenibilità sul lungo periodo del continuo sviluppo di nuove tecnologie, credo che dovremmo considerare altri due aspetti: la godibilità della vita e la bellezza, senza i quali la nostra esistenza diventa sempre più triste.

Seguono mie libere rielaborazioni dalla lettura del libro Liberi dalla civiltà di Enrico Manicardi.

Partendo dal presupposto che la nostra è la civiltà che si distingue sopra tutto per uno sviluppo della tecnologia mai visto prima; alla affermazione ancora oggi ben in voga: la tecnologia non è ne buona ne cattiva, dipende solo dall’uso che se ne fa, possiamo dare una risposta?

Partiamo dalla distinzione fra utensile e strumento tecnologico: un utensile ha sempre una sua capacità d’uso legata all’abilità manuale di un essere umano, mentre uno strumento tecnologico in se non servirebbe a nulla se non fosse parte di un insieme complesso che lo rende utilizzabile. Per esempio la differenza fra martello e trapano elettrico: il martello per essere utile ha la sola necessità dell’abilità manuale, per utilizzare un trapano la sola abilità manuale non serve a nulla se non c’è anche l’energia elettrica e tutto quel complesso sistema di produzione, trasformazione e trasporto che la rende utilizzabile.

Più la tecnologia diventa complessa più diventiamo dipendenti dalla tecnologia e incapaci di svolgere un lavoro senza tutto l’insieme tecnologico che sta a monte, la vita apparentemente diventa più “comoda” e questo ci conquista, ma noi perdiamo buona parte delle nostre abilità e del piacere ad esse connesso, il non sentirci più noi stessi con le nostre mani artefici delle cose di cui ci circondiamo, ci isola creando un vuoto di relazione viva, spesso inconsciamente cerchiamo di colmare questa sensazione spiacevole con una fuga verso nuove dosi di tecnologia, un circolo vizioso che ci rende sempre più scontenti ma incapaci di comprenderne le profonde motivazioni e di trovare una via di uscita.

Ci sono poi strumenti in grado di manipolare ancora di più il nostro inconscio, per esempio l’automobile e i moderni strumenti di comunicazione, in questo caso le cose peggiorano drammaticamente, questi strumenti per la loro capacità ammaliante sono in grado di farci perdere il senso e lo scopo per cui sono stati costruiti, li percepiamo essi stessi come uno scopo, inoltre ci fanno perdere la capacità di vedere il prezzo che di conseguenza dobbiamo pagare: la perdita del contatto con tutto ciò che è naturale e che può darci una autentica e profonda gioia di vivere e il fatto che ci ammaliamo per tutti i residui tossici che queste tecnologie rilasciano nell’ambiente come conseguenza della loro costruzione, utilizzo e smaltimento a fine vita.

La velocità di spostamento che l’utilizzo di un’automobile ci rende possibile e la comodità di viaggiare senza fatica, ci fa perdere senza che ce ne accorgiamo il contatto con la vita dei luoghi che scorrono veloci davanti ai nostri occhi, ci isola e ci spoglia di un’infinità di relazioni che fuggono assieme alle immagini di quei luoghi che in istanti infinitesimali scompaiono dalla nostra vista, ci fa percepire tutto ciò che è lento come noioso, perché abbiamo perso la capacità di entrare in relazione e di conseguenza abbiamo bisogno che gli stimoli che riceviamo siano velocemente sostituiti da altri nuovi, altrimenti accade che sentiamo che qualcosa non va, accade che iniziamo a percepire un disagio, ci troviamo inconsciamente di fronte a un vuoto insopportabile, perché non sappiamo più come abbandonarci a godere della lentezza, profondità e bellezza del contatto con relazioni autentiche.

L’automobile è uno status symbol, un’icona che non può essere messa in discussione nella nostra società e a causa di questo c’è una scarsa percezione diffusa dei conti che dobbiamo pagare, conti che vengono sottovalutati se non rimossi, una delle conseguenze dell’utilizzo intenso dell’automobile sono gli incidenti, leggiamo i dati ISTAT: in Italia nel 2018 ci sono stati 172.344 incidenti stradali con lesioni a persone, di cui 3.325 vittime (morti entro 30 giorni dall’evento) e 242.621 feriti, il costo di questi incidenti è stato calcolato pari a 17,1 miliardi di Euro; in aggiunta c’è l’inquinamento in continuo aumento che causa ulteriori morti e malati.

Con l’avvento di internet e dei social media, il piacere di stare con gli altri o di godere delle sensazioni che ci giungono dall’ambiente naturale che ci circonda, non sono più uno stimolo sufficiente, gli stimoli artificiosi e ipertrofici della realtà virtuale superano di molte lunghezze gli stimoli di una relazione naturale, sempre più le persone trascorrono il proprio tempo davanti a dispositivi elettronici connessi in rete, trasformando l’umanità in un mondo di alienati sempre più tecnodipendenti che accettano di essere deprivati delle proprie doti migliori in cambio di stimoli artificiali. Stiamo cedendo la parte migliore di noi stessi in cambio di perline colorate e luccicanti ma avvelenate.

Stiamo arrivando al punto dal confondere la vivacità di una relazione personale con la sistematicità e compulsività di una corrispondenza in rete, dallo scambiare il potenziale dirompente e ludico del gioco con la paralisi atrofizzante di un video-svago.

Ormai consideriamo “fuori del mondo” gli unici luoghi sulla terra che possono definirsi ancora nel mondo: quelli cioè nei quali non esistono internet, il telefonino non prende e non arriva il segnale della TV. Li consideriamo “fuori del mondo” perché oramai il nostro mondo è fatto di questa realtà virtuale che sta soppiantando le relazioni vive con la bellezza di tutto ciò che ci circonda.

Inoltre la tecnologia non desta preoccupazioni per una serie di motivi, ogni nuovo ritrovato sembra sia solo una opportunità in più, sembra sia possibile una scelta, viene recepito come uno sviluppo e pertanto positivo, ma con il tempo senza che ce ne accorgiamo diventa praticamente impossibile farne a meno e questo processo accade perché crea dipendenza come una droga, farne a meno richiede un impegno difficile e doloroso, a meno che non venga sostituita da una innovazione ancora più avanzata da cui poi ripartirà lo stesso meccanismo.

La comodità della vita dipendente dalla tecnologia, ha su di noi una grande attrazione, ma ha dei pesanti risvolti che spesso non valutiamo: funziona come una stampella, ci allontana da tutte le nostre capacità, ci atrofizza, si pone come ausilio se non sostituto al nostro movimento fisico, al nostro pensiero, alla nostra sensibilità, al saper fare esperienze in prima persona, al saper riflettere con la nostra testa e saper scegliere ascoltando la voce del nostro cuore. Non siamo più in grado di sentirci a nostro agio nel muoverci in un bosco senza i nostri ausili tecnologici. In altre parole la dipendenza dalla tecnologia ci rende passivi, ma la vita non è passività ma attività. Se siamo ancora in grado di ascoltare, in fondo al nostro essere c’è un forte richiamo alla vita all’aria aperta, alla semplicità, alla libertà e nello stesso tempo alla condivisione e mutuo sostegno.

Se valutiamo bene i fatti, quello che la tecnologia ci dà con i suoi strumenti sofisticati ha sempre un’altra faccia nascosta: ci spoglia delle nostre migliori potenzialità. Non sono gli strumenti tecnologici che si adattano a noi ma siamo noi che siamo chiamati ad adattarci a uno stile di vita sovrastato dalla tecnologia.

È evidente che più l’esistenza si fa progredita e artificiale, più aumentano il disagio, l’insoddisfazione e la sofferenza, fino a poter dire che nel mondo del benessere ciò che regna è il malessere.

Il 17 ottobre del 2003 sul Financial Times viene pubblicato un articolo di Richard Tomkins con delle domande: “Dal punto di vista materiale le società occidentali stanno molto meglio oggi rispetto a quarant’anni fa, ma allora perché […] la depressione ha raggiunto proporzioni epidemiche, anche tra i bambini? Perché la gente considera quella in cui viviamo l’età dell’ansia? Perché gli studi condotti nella maggior parte dei paesi sviluppati indicano che la gente sta diventando sempre più infelice?”.

Nel frattempo dal 2003 le cose non sono migliorate, ci sono dei segnali ben chiari: aumento dei suicidi che arrivano a manifestarsi addirittura in età pre adolescenziale, aumento dell’uso di farmaci antidepressivi o contro l’ansia, aumento di farmaci contro l’insonnia, aumento dell’abuso di alcolici e droghe, aumento degli episodi di violenza e di bullismo in età sempre più bassa.

Viviamo in una civiltà dove c’è sempre meno spazio per le relazioni, sia quelle umane sia quelle con la natura di cui facciamo parte: il sole, gli alberi, le nuvole, i prati, il cielo, la pioggia e tutta la ricchezza di suoni, odori, sensazioni, bellezza che la natura sa dispensare. Visti gli esiti della tecnologia sulle nostre esistenze, forse vale la pena iniziare da subito un percorso verso una maggiore godibilità della vita, percorso che necessariamente smantella il piedistallo su cui abbiamo messo la tecnologia e si muove verso una esistenza più ricca di bellezza e relazioni vitali.

Dostoevskij nel romanzo “L’idiota” fa dire al protagonista questa frase : La bellezza salverà il mondo.