Un bella intervista con lo scrittore iraniano Majid Rahnema che ci fa riflettere sui dogmi del nostro sistema di “sviluppo”  e sul senso autentico della parola “povertà”.

LA FORZA della povertà

«Definire quattro miliardi di persone in base al loro reddito, ignorando i saperi di cui sono depositari e le battaglie combattute per salvaguardare la libertà dai bisogni imposti dall’esterno è una operazione ridicola e arrogante». Queste le conclusioni dello studioso iraniano, che si è dedicato all’analisi dell’indigenza dopo essere stato ministro della cultura e avere lavorato per l’Onu sullo sviluppo
Quello compiuto da Majid Rahnema, nato a Teheran nel 1924, è un percorso molto particolare: cresciuto nell’ovattato ambiente della buona borghesia iraniana, educato al cosmopolitismo progressista sin da giovane con studi a Beirut e Parigi, per circa quarant’anni ha frequentato i «salotti buoni» della diplomazia internazionale, come ministro dell’Istruzione e rappresentante dell’Iran alle Nazioni Unite, membro del consiglio esecutivo dell’Unesco, diplomatico di alto livello per il programma dell’Onu per lo sviluppo (Undp). Fino a quando, grazie all’incontro con Ivan Illich da una parte e con il pensiero di Spinoza dall’altra, non ha capito che doveva «pulirsi gli occhiali», perché «vedere le cose come stanno rimane la conditio sine qua non per ogni ricerca della via giusta». È allora che ha maturato il desiderio di comprendere, ed «eventualmente scrivere la storia nell’ottica dei vinti piuttosto che dei vincitori, dei leoni piuttosto che dei cacciatori», come spiega nell’introduzione al suo ultimo libro, La potenza dei poveri (Jaca Book, con Jean Robert, trad. Marinella Correggia, pp. 304, euro 29). Ed è da allora che ha deciso di dedicare le sue energie a storicizzare le certezze moderne, adottando uno sguardo genealogico che rivelasse le possibilità negate o rimosse dall’imposizione dei saperi legati all’ordine produttivo instaurato con la rivoluzione industriale. Un ordine che ha ingaggiato una vera e propria guerra «contro la potentia – nel senso spinoziano del termine – dei poveri», sostituendo al dominio e alla pienezza interiori quel potere esteriore (la potestas) «la cui essenza è l’esercizio di una forza di intervento sugli altri». È in questo modo, con la distruzione dei valori vernacolari, con il declino delle capacità di sussistenza autonome radicate nelle forme culturalmente incarnate di povertà, che la miseria – basata su bisogni e desideri esogeni piuttosto che sul riconoscimento realistico della necessità – è stata capace di «cacciare via la povertà, i modi di vita che fino al sorgere della modernità avevano permesso ai poveri di vivere dignitosamente». Ed è così che i poveri sono diventati oggetto di studio e di compassione istituzionalizzata, «biglietti di banca sempre più svalutati», che dovrebbero essere caritatevolmente rivalutati integrandoli in quel sistema economico che li ha resi miseri. Abbiamo chiesto a Majid Rahnema, che sabato pomeriggio presenterà il suo libro al «Salone dell’editoria sociale», di spiegarci questo circolo vizioso, insieme all’impostura dello sviluppo e della «lotta alla povertà».


Cominciamo dall’«inizio», ovvero dalla sua condivisione con Ivan Illich di tante esperienze, inclusa quella del Centro Intercultural de Documentación di Cuernavaca, in Messico. Nei suoi testi ci sono molte tracce di questa lunga frequentazione, che riflettono un’influenza profonda nel modo di ripensare gli stessi termini con i quali lei oggi guarda alle società in cui viviamo. Ci racconta qualcosa di più di questa frequentazione, e dell’eredità che Illich ci ha lasciato?
Effettivamente devo molto all’amicizia con Ivan Illich e alla sua mente eccezionale, come mi è capitato di dire, tra l’altro, nel libro Quando la povertà diventa miseria. Illich disponeva infatti di una qualità simile a quella di un «laser», che gli consentiva di penetrare molte delle opacità dei nostri tempi e di riconoscere le illusioni costruite dal mito del progresso. Credo che il suo contributo più utile alla comprensione della modernità risieda nel modo in cui è riuscito a dimostrare come la perdita del senso dei limiti e della proporzione ci abbia impedito di avvertire i pericoli del nostro tempo. Si rammaricava che i moderni osservatori della società non riconoscessero quelle perdite di cui soffrivano a causa del forte sviluppo di nuove domande e di inediti bisogni. Non dimenticherò mai quel che mi disse in occasione del mio settantesimo compleanno, dopo che gli avevo chiesto: «Ritieni che ci siano ancora spazi non sfruttati, nelle società vernacolari come in quelle industrializzate, dove le vecchie forme di virtù abbiano qualche chance di maturare incolumi? Spazi che possano essere indirizzati a quello che una volta hai definito «un mutamento fondamentale di direzione alla ricerca di un futuro di speranza?». Ecco la sua semplice risposta: «Sì, questi spazi ci sono. La maggior parte di noi, a prescindere dalla povertà delle nostre circostanze di vita, può ancora rivendicare o marcare una soglia. Possiamo farlo anche con la memoria di qualcosa che è assente. Possiamo essere una fonte di limpidezza e di bontà per ogni altro individuo; questo, più gli spaghetti, è tutto ciò che abbiamo da condividere». Qualche minuto dopo, però, ha aggiunto: «In un mondo costruito sullo sviluppo, a prescindere dallo stadio economico raggiunto, il bene può arrivare soltanto dal tipo di complementarità personale che Platone, non Aristotele, aveva in mente. Il dedicarsi agli altri, a ogni altro, è il generatore di un minispazio nel quale possiamo essere d’accordo sulla ricerca del bene».
Nel 1997 lei ha curato un testo fondamentale, «The Post-Development Reader». Eppure, anche lei è stato in qualche modo «soggiogato» dal mito dello sviluppo. Soltanto a partire dagli anni Settanta, infatti, ha riconosciuto come, piuttosto che un antidoto al colonialismo, lo sviluppo ne fosse una nuova variante, priva di forza liberatrice. Cosa c’è di sbagliato nello «sviluppo», e perché ha cambiato idea?
Negli ultimi ottant’anni, poche parole sono state così frequentemente discusse, commentate, glorificate o attaccate come «sviluppo». In quanto vittima personale delle varie fasi della sua esistenza, devo confessare che anch’io sono stato un fan dello sviluppo nei primi quarant’anni della sua ascesa, quando si impose in particolare nell’immaginario della prima generazione della cosiddetta élite del Terzo mondo. Da Nehru a Sukarno passando per Nasser e N’Krumah, tutti sembravano vederlo come un potente strumento per «recuperare l’Occidente», ed eventualmente sorpassarlo. In questo modo, come loro, divenni anch’io un convinto sostenitore del nuovo mito dello sviluppo. È solo quando avevo circa cinquanta anni che ho compreso gli effetti caustici di un simile mito sulla nostra visione della realtà. Fino ad allora, ogni volta che individuavo uno dei suoi effetti negativi, se non disastrosi, su quei poveri che si supponeva dovesse aiutare, tendevo a concluderne che le cause andassero attribuite al «cattivo» sviluppo. Ma poi, da quando sono diventato un senior advisor dell’amministratore dell’Undp, ho cominciato a vedere quanto quel concetto fosse diventato pericoloso per centinaia di milioni di poveri nella loro vita quotidiana: non solo per quel che riguarda il loro progresso economico, ma anche nei termini di una più generale consapevolezza umana e politica. Dal punto di vista filosofico, direi infatti che il giorno in cui gli abitanti del sud hanno internalizzato l’idea di essere sotto-sviluppati rispetto ai ricchi abitanti sviluppati del nord hanno ottenuto in cambio non il progresso che si aspettavano, ma il regresso di ogni aspetto della loro vita, per usare il termine coniato da Amartya Sen. Ancora oggi, le élite modernizzate dei «paesi sottosviluppati» continuano a presentarsi orgogliosamente come campioni dello sviluppo nazionale. Ma il loro entusiasmo non è più condiviso dalle «popolazioni beneficiarie», sebbene molti anni fa lo sviluppo fosse stato accolto favorevolmente, come risposta al colonialismo e alla dominazione straniera. Oggi, quel concetto o non significa nulla per queste popolazioni, oppure è identificato con quei governi che servono principalmente gli interessi del mondo «sviluppato». Paradossalmente, è finito per legittimare la legge della giungla, la distruzione del sistema immunitario delle persone, la svendita delle loro risorse e dei loro talenti al miglior offerente. In breve, significa l’opposto di tutto ciò a cui una volta alludevano le sue promesse liberatrici.
L’ordine produttivo instaurato dalla rivoluzione industriale – scrive nel suo libro citando Foucault – rappresenta una rottura sociale ed epistemologica in molti campi dell’attività umana. Una rottura da cui discende quella tra il sapere prodotto sui poveri, che a sua volta è basato sul riconoscimento dei limiti soggettivi e sociali, e i saperi-poteri della modernità, con la loro tendenza espansiva e monopolizzatrice. Ci spiega la differenza tra queste concezioni?
Sia io che Jean Robert, coautore della Potenza dei poveri, siamo stati accusati di sollevare una questione – quella epistemologica – del tutto teoretica. Credo invece che sia il cuore del problema: più ho approfondito questo tema, studiato da Foucault e in maniera diversa da Deleuze, e più mi sono accorto che il problema della povertà risiede nella tendenza degli «esperti», degli economisti, di tutta la scienza, a ridurre la povertà alla sola dimensione economica, a una certa soglia di reddito. Definire quatto miliardi di persone come individui che non hanno nient’altro se non due dollari al giorno è un’operazione estremamente ridicola e arrogante, frutto dell’imposizione dei saperi-poteri della modernità. I poveri infatti hanno una propria potentia, radicata nelle conoscenze di cui sono depositari, nel modo di comportarsi, nella vita quotidiana, nelle battaglie che combattono ogni giorno per salvaguardare la libertà dai bisogni della necessità imposta dall’esterno. Una libertà che gli «esperti» à la Jeffrey Sachs non hanno capito. Per questo, non possono pretendere di suggerire soluzioni.
Lei è in Italia per partecipare al Salone dell’editoria sociale, dedicato a «Educazione e intervento sociale». Nel suo libro si dichiara fortemente sospettoso verso la parola «educazione», già fortemente criticata da Ivan Illich in «Descolarizzare la società». Come promuovere, al posto di un’educazione intesa come «riempimento» di deficit e di lacune, un libero e creativo apprendimento autonomo?
A Ivan Illich, in effetti, la parola educazione non piaceva affatto. La considerava come qualcosa che proveniva da una fonte o da un’autorità esterna, un veicolo per imporre una conoscenza estranea, sotto forma di dono o di vero e proprio ordine, come se si trattasse soltanto di trasportare dall’esterno un oggetto, così da riempire un contenitore vuoto, una forma di autorità trascendentale che si impone su uno spazio immanente. Anch’io, quando ero ministro dell’Istruzione, mi sono interrogato su questo tema, e sono arrivato alla conclusione che occorrerebbe favorire una relazione che permetta a ciascuno – nell’ambito dei limiti delle sue conoscenze – di afferrare le domande con cui deve fare i conti, di sapere quali forme di conoscenze siano importanti per lui. Anche Gandhi, che non aveva letto nulla di Illich, si è interrogato sull’istruzione, ed è arrivato a sostenere che ai bambini, come prima cosa, non bisogna insegnare a leggere l’alfabeto, ma il mondo, not the word, but the world. Perché le fonti della conoscenza sono tre, le mani, il cuore e il cervello, e vanno esercitate congiuntamente. Ciascuna di esse, senza le altre, non ha valore.